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Valchiria - Nella luce, 2008. Olio, sabbia e madreperla su tela. Dettaglio

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Giornata d'Autunno (1991-1993)

Piero (1992)

Ottavo Campale (1993)

Gli strilli

 

Giornata d'Autunno (1991-1993)

 

   Ci son momenti in cui credersi presenti vale piu’ del destino a cui s’aspira.

 

   Quando ho scritto queste cose avevo molto altro a cui pensare, molti modi per farlo, molto tempo, per farlo, ma non il coraggio cui necessitavo come minimo sintattico di fondo. A quel tempo vivevo in una casa quasi in centro, Via Paoli, al terzo piano d’un arioso caseggiato vecchio stampo, immerso nelle vie d’un antico benestare, ora solo il limite di cio’ che invece e’ nuovo e largo e comodo.  Una casa comprata da una nonna, rilasciata a fine dei solstizi, con ancora odori e impianti da signora d’altro tempo. Ristrutturata fino a un pezzo, e‘ stata poi lanciata nell’affitto mercenario stanza a stanza, necessario vuoto di morale a salvaguardia del bilancio. Ancora ricordo le giornate di fatica passate a tirar secchi di calcina dalla tromba delle scale, passando per la finestra dell’androne e poi la Luca Delle Site - Contemporaneamente, poesia d'autore corte cui si affaccia il corridoio. E ricordo anche la noia che inconsulta mi prendeva, per il non poter giocherellare tra gli stolti, non potere sonnecchiare fra i quaderni, e non poter neanche diriger le mie ire sul  fardello d’una ignara giovinezza. Invece, dovevo passare le giornate tra il sudore e poco altro, all’attenzione di mio padre e delle sue concitazioni, tra i cementi troppo grassi e le pietre da scalzare, e l’indigena insolenza di chi ancor non s’e’ compiuto.

   Oggi, oggi, potessi, darei vent’anni dei miei tempi per ancora un pomeriggio insieme ai baffi di mio padre, sentire il suo respiro faticarne intonaco e mattoni, ma vivo ed inzuppato nel mio sangue. Ma non posso; e solo quando uomini s’arriva e si declina, si capisce il senso d’ogni grido, il costruttivo infervorarsi d’un tutore, ed anche il reciproco escoriarsi di esseri naturalmente combattivi. La giovinezza, la gioventu’, l’esser figli non autonomi ed acerbi, declassano i rapporti a sudditanze e parapiglia, ma sono nel contempo incubatrice e bel proscenio di intimo rispetto poco avanti, quando gli anni coltivano ormai rughe delicate per entrambi. La cosa ben piu’ strana era il dover di condividere lo stesso tempo e lo stesso spazio la’ dove il concetto di famiglia, la struttura, le movenze, i ruoli e i cliche’  consolidati vengon meno. Ci si trova uomini di fronte, privi d’uno schema preconcetto, anime di fronte e per confronto. E li’ si falla, almeno io, almeno noi; si fallisce, ci si sbaglia, e neanche si capisce. Ma e’ la vita. Non e’ un film. In quei momenti si trascura il ritmo dell’esistere, il valore del tempo che e’ in comune, per poi rimpiangersi a dirotto solo pochi anni dopo. E’ la vita. Ma tornerei a quei pomeriggi, quando scavavo col pneumatico dritto tra le pietre, a scovar le tracce per i cavi, ed il prossimo finale. Non posso. Cosi’ come tornerei a brindare alla prima stanza libera affittata, come facemmo solitari, mio padre ed io, forse solo nei pensieri.

 

   Di quella casa ricordo, adesso, le strane porte bianche, ricurve per il peso e il troppo tempo, brutte ma al contempo prestigiose; e il pavimento tutto buche, di un rosso ormai mattone; e la polvere, immensa, che copriva il mio salotto, la camera, lo studio, la sala relax, la sala musica ed il laboratorio: la mia stanza. L’unica cosa che la polvere non mangiava erano la scrivania ed il braccetto del piatto giradischi. I libri dello studio, un po’ di piu’.  Ero rinchiuso, ed ogni giorno mi rinchiudevo nella stanza dei miei sogni, all’interno della casa dei miei sogni, in compagnia dei miei sogni. Il perche’, sarebbe stato poi scritto in queste righe, turbinio feroce d’insolito conato, mischiato al rigetto d’altre dimensioni, amicizie, chiacchiere. Cosi’ ho ideato, cresciuto, coltivato e poi indossato i sogni miei d’atleta della vita.  

   Quasi per gioco, un giorno ho scritto Ecco un uomo, la mia prima lirica ufficiale (a dire il vero la seconda, la prima era stata scritta da bambino), per giustificare almeno l’acquisto del computer, ed usarlo invece di sorprenderlo a dormire. E cosi’ son nato io. Da quel giorno in poi. Contemporaneamente.

 

   Molte sono state poi le liriche prodotte, raccolte con pazienza e organizzate prima in capitoli distinti, poi racchiuse in libri a struttura logica ed affine, una ad una, distillate; infine, collezionate a comporre intera la raccolta. 

   Ogni giorno era il giorno, seduto tra la scrivania ed il muro, con lo sguardo a investigarmi nel profondo, attento a non sporcarmi l’apparenza con la cenere di qualche sigaretta. E scrivevo, sempre e solo sul computer; trascrivevo, meglio dire, cullato dalle note di Guccini, quel Francesco, o della quinta sinfonia di un perfetto Gustav Mahler. Trascrivevo sulla scena i dettami del mio dentro, a Cezanne, La casa del dr. Gachet in Auversvolte socchiudendo gli occhi e le persiane, per non aver contatti che filtrassero gli eventi, le contaminazioni settiche che non mi son state mai gradite. Amavo lasciare le persiane ben socchiuse, lasciando trasparire solo pochi raggi d’ogni giorno, cosi’ da avere l’atmosfera giusta per la cova dei miei vermi. O la sera, con la musica soffusa, la luce della lampada da studente realizzato, l’airone, distesa sopra il piano del lavoro. La giusta luce, il giusto marrone chiaro della scrivania, costruita in mezzo pomeriggio con le tavole del vecchio arredamento della stanza della mia cara gemellina; la giusta ombra, che copriva con sapienza il poco vanto del troppo polverume. Quelli erano i momenti. Nel  mezzo, un po’ di vizi, un  po’ di studio, la malinconia per un amor che non volava, ed un mondo che ancor non mi voleva.

   Pochi amici, ricordo. A parte Riccardo, il mio Riccardo, il Comparini, un sapiente venditore di energia, quello che poi avrei dipinto ne L’uomo delle cinque, brano pubblicato nel mio libro  In cerca d’amore (ETS, 2003). Arrivava sempre al tardo pomeriggio, le cinque piu’ o meno, a ricordarmi che la notte si avvicina, e la vita in fondo va vissuta. Grazie Riccardo. Ti devo. Erano i momenti del normale, quelli, delle uscite a cazzeggiare, delle risate e poi fumare, col Tore, Danielino, e pochi altri spiccioli d’onore. Eppure di normale, in Riccardo, c’era ben poco, uomo destinato per forza e per passione, alle lotte di costume che fan generazione.

   Comunque, comunque, tutto in fondo era parentesi d’attesa, perche’ la vera poi  attenzione, il fulcro d’ogni pavido esitare, era infine tornare alle mie mura, sedermi, distrarmi solo un poco, sentenziare di getto ad incantare, trascrivendo in elettronica fattura la schiuma dei miei sensi che sentivo tracimare. Ho vomitato, ruttato, sudato e trasudato, in questo modo. Ho vissuto, come mai, compiendo enormi imprese ed ercoliche fatiche, fermo incatenato dal richiamo dei pensieri e dal grigiore che e’ del pazzo in mezzo al mondo. Come un dissenterico costretto sulla tazza…

   Ma eran questi i giorni, diffusi con la noia per lo studio e un futuro che certezze non aveva; in piu’, il mio lavoro con Mario Mengheri e dintorni, l’analisi, il suo studio, e le passioni che la’ dentro consumavo. Il percorso, la scia, il binario che ancora inseguo fiducioso. Molto hanno influito quei minuti che una volta a settimana relegavo alle mie furie, cercando nel contempo di riceverne struttura, sembianze, respiro e poi coraggio. Molto hanno inciso, come e’ ver che nel prosieguo, poi, ho scorto e ancor si scorge il rilascio di tensioni che mi rendono migliore.

   Nel mare poi confuso del convivere forzoso ho scoperto d’aver trovato spilli di saggezza e di eroismo, cosi’ come martelli  d’inquietudine costante e il macigno rovinoso d’un collasso siderale: quello d’una morte non compresa, d’un uomo siculo, scuro e manovale, ceduto all’universo nei giorni del suo passaggio a villa Paoli.  Esperienze di valenza naturale e popolare, sociale e  cosmopolita; un viaggio dentro al mondo; il mondo che viaggia intorno a me. Come i due ragazzi d’intifada, che han portato dalla Palestina dentro la piccola a sinistra, i fez e le spillette della lotta d’opinione, l’idea di quanto in vero siamo uguali, e un’odiosa capacita’ nell’uso improprio del bidet. Od il milite para’ segreto e secretato, avvolto dalla cappa dei suoi giorni di Via Paoli, passati in ginocchio a fustigarsi, devoto al Cristo e alle sue icone. Per l’inspiegabile ironia dell’uomo umano, e l’ignoranza che in vero manifesta, creo’ stupore e strane sensazioni piu’ l’inginocchiatoio sotto al crocifisso che i volantini guerriglieri d’una temutissima e chiacchieratissima intifada. Volere della sorte. Paura del divino. Paura e rituali mai compresi. Di questi, di queste, non avrei mai scritto ne’ parlato, se non per rari accenni al dopocena. D’altri invece, piu’ evidenti e forse piu’ comuni, simili, vicini, ho detto e fatto e reso stile e narrazioni. Cosi’ l’Ungaro (poi pubblicata in Anime a Sud, ETS, 2008), avrebbe trascritto pene e miscugli di un maldestro cantastorie, confuso e diffuso fino all’osso di un’etica che dice solo andiamo avanti. O Mia, donna (In cerca d'amore, ETS, 2003), con l’uomo alla finestra,  lassu’, in Via Paoli,  la Paoli che fu la culla d’ogni tutto. O Ad un Cecco, lirica raccolta in questo libro, per ragazzo d’oro e troppo fumo, amico d’un amico d’un amico, e niente altro; o Giorgio, e Il Botti, sonate per compagni nello studio e negli scarsi pasti in quel di Pisa; il Bonanima copia matrice del libero pensar che in se’ fa branco, rovistando tra i rifiuti d’una scarsa sanita’ spirituale.  O il Maurino, il suo ago, i miei sogni e tutto il resto.

 

   Il risvolto degli eventi che alla  fine fa medaglia, e’ saper d’aver condotto poi alla meta il mio progetto che riga dopo riga sapevo di volere. E tutta l’aritmia confusionaria che a quel tempo mi sbalzava fuori dalla portanza comune d’ogni gruppo,  ha in verita’ prodotto una linea ben marcata nella storia dei miei assunti, il disegno di una logica epurata del bisogno, dell’effetto stesso di portanza confinato nel disuso, logica che allora credevo puntuale impedimento e contrappunto. Invece ha prodotto, ho prodotto, ed ha incubato un sentire fulgido e capiente che avrebbe poi riempito i miei momenti negli anni che han seguito l’eruzione. Ed una sonata sinfonica composta, spezzata in momenti d’energia e tenori vari, per scandire il ritmo stesso della vita, d’una fase, o di un’unica giornata che si vive. Ed ogni nota, la sua lirica connessa, han ruoli ruvidi  e precisi, calzanti inevitabili l’incastro pur suonante dell’intera sinfonia, tra cose venute dal profondo, sogni, visioni, intemperie che ho subito navigando o attraversato.

 

   Da Via Paoli mi sarei dopo separato per aprire un circolo di intenti tra le braccia di re Mida, un colonnello del Reggimento modenese, e cio’ che rimaneva di figlio mutato a Caporale ed artigliere. L’Ottavo Campale (qua pubblicato), e’ quanto han rigurgitato quei mesi di risa e marce e gran dormite. Ma questo e’ venuto dopo, tutto dopo quella mia nebulosa giornata d’autunno.

   Dopo queste lunghe pagine riempite di tratteggio, non ho piu’ scritto a tagli, a strappi, a sputi o lampi; ho preferito percorrere i gomitoli sguscianti d’un discorso piu’ armonioso, per darmi forse piu’ respiro o la critica coscienza di chi ha tempo e pace per potersi consolare.

 

   Questo libro rappresenta dunque il mio albore, seppure anche Piero, ed In cerca d’amore (in parte), abbiano condiviso poi lo stesso triennio. Cosi’ per Mediaevalica (pubblicata in Anime a Sud nel 2008), anch’essa amato frutto di quegli anni.

   Tre sono le fasi che han composto quella mia giornata, come tre sono i libri attor di tali ore: Comunque no, Macte, ed Il sole di Ottobre. Tante poesie, tante pagine, momenti di ciascuno per ciascuno, condivisibili come meglio poi si creda. Momenti.

   Momenti raccolti a tracciare il cammino, il flusso di un esistere che emergeva comunque dal travaglio della giovinezza, come spesso accade nel periodo della prima conoscenza, quando i postumi della passata adolescenza ancora dolgono, ed i costrutti piani ed efficaci del maturo ancora son lontani o fan paura.

   Il primo libro e’ dunque Comunque no, ruvido e  scontroso senza appelli, diretto come un tuffo verticale dentro al gorgo, per capire infine cosa si nasconda e poi davver valga la pena. Un tuffo, un tuffo, un tuffo dentro al peggio a mani aperte, ad occhi  e orecchie aperte, a cuore spalancato, a mente acritica, attenta e disillusa. Il tuffo. Percorro strade che non hanno risalita, ingiallendo per stupore e bassa comprensione, sorpreso d’un sotteso che non riesco a digerire. Non affogo. Ma rinuncio. Rinuncio perche’ non c’e’ coraggio nell’agire, rinuncio perche’ non voglio progredire, perche’ non vedo le scintille ne’ il calore. O forse e’ solo il primo vero gran trabocco, l’esondazione artificiosa di un sentire permaloso ed immaturo, immerso come un cencio dentro al secchio dei vent’anni.

   Poi Macte, un’ora dopo, un giorno dopo, un anno dopo. Un sonnecchioso Autunno, quando tutto puo’ cadere pero’ si sente ancora che c’e’ spirito vitale, malgrado foglie, e piogge, e i nostri umori, sembrino disciogliersi in un sibilo di vento. Un atto perizioso e contagioso, paziente e comprensivo, perche’ non tutto sia delebile e noioso, orrido e infruttuoso. Si puo’, si prova, pensanti quali siamo nell’atto del salvarci dal presente. L’atto. Parte dall’attesa, come i primi anni dopo nati in cui s’aspetta di vedere e di capire cosa ci regala ogni visione, cosa attende dietro il muro o dentro il ricucirsi d’ogni singola puntura. Cosi’ si muove, ci si muove, un passo ad inventarsi un nuovo modo, e l’aspetto che determina strategico il successo d’ogni mossa contemplata. Fra gli schizzi inevitabili che il procedere solleva.

   Infine Il Sole di Ottobre, solletico sensibile per l’anima e gli eventi, un sonoro altalenante e flessuoso, non privo di cespugli e stecche d’ogni tipo, ma consapevole poesia d’un altro rituale, piu’ soffice e leggero, capace di galleggiare come olio sulle acque torbide al di sotto. Un tema percorso fino al tiepido tramonto della sera, il tono che abbandona lo spadone e si placa nel tenue colorarsi all’orizzonte. La vestizione, forse, al nudo che ritorna, al puro, al semplice, all’inizio, nell’effetto stesso del tramonto, comunque appaia strano. Il riposo nell’attesa per domani che, chissa’, ci sia migliore.

 

Di mano in volo,

spengo il sole

dietro al corpo

di un airone.

 

   Una raccolta, un libro, una storia, i dubbi e le certezze che per un momento ho sfiorato o condiviso. Tre anni di umana follia, i pensieri e le passioni di una fredda giornata d’autunno.

 

 

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 Luca Delle Site - Contemporaneamente, poesia d'autore. Aprile 2010. Tutti i contenuti sono protetti dal diritto d'autore